Andy Warhol fu un artista a tutto tondo. Il suo nome è indissolubilmente legato alla pittura del ‘900, ma anche al cinema. Sono in pochi a saperlo, ma il maestro della pop art vestì infatti anche i panni del regista.
Andy Warhol: Film con parola d’Ordine Sperimentare
Andy Warhol fu capace di sperimentare mode, tendenze e stili sempre nuovi, tanto da segnare un’epoca. Quale che fosse il soggetto ritratto o filmato, l’artista volle sempre osare, dissacrare ed al contempo porre l’accento su un argomento, un personaggio o un’ideologia.
Proprio questo è il senso nascosto dietro alle sue famose serigrafie in serie, serialità che in qualche modo affascinò l’artista sin dalla più tenera età. Un vecchio aneddoto vorrebbe infatti che Andy Warhol da bambino, non aveva allora più di otto anni, trascorresse il tempo proiettando più e più volte lo stesso cartone di Mickey Mouse sui muri di casa.
In una fase successiva l’artista adottò la serializzazione di immagini ed icone come linguaggio espressivo. Un soggetto veniva moltiplicato, per così dire, se importante dal punto di vista culturale. La cultura in questo caso però non è quella ufficiale, ma quella popolare, dettata dai media. Celeberrimo è il suo “Marylin”, serigrafia riproducente più e più volte il viso di Marilyn Monroe, diva dell’epoca. In particolare, come scritto nella pagina con le sue opere sul sito www.deodato.com: “Per Andy Warhol Marilyn Monroe rappresenta uno degli emblemi della cultura americana nonchè massima espressione dell’ideale di vita perfetta a cui gli americani aspiravano, ovvero a quella veicolata dai mass media.”
Pittura e cinema per Warhol
Pittura e cinema furono per Andy Warhol due campi di sperimentazione. L’artista mise in scena dei film muti il cui soggetto era interamente affidato ad attori non qualificati. Ai loro corpi venne dato il compito di esprimere un messaggio permeato di una realtà spesso disarmante.
Anche su pellicola il pittore decise di riproporre l’idea di serializzazione di un’immagine. Così film e dipinti si liberavano del concetto di spazio e dell’idea di tempo. Tutto sembrava dilatato, spersonalizzato, fuori da un qualsiasi tipo di contesto. Scopo delle sue opere fu quello di eliminare, in maniera quasi asettica, l’emotività dall’arte. Andy Warhol insomma fu uno sperimentatore, un provocatore.
Più volte affermò ad esempio di filmare un dato soggetto mentre ininterrottamente compiva la stessa azione per evitare il problema del montaggio della pellicola, per venire incontro alle esigenze del pubblico che va al cinema non tanto per guardare un film quanto per avere un contatto emotivo e visivo con una star o per risparmiare tempo e denaro. Di contro però, sono ancora concetti espressi da Andy Warhol, questo modo di filmare consentiva di guardare le persone nella loro effettiva realtà.
Tale poetica doveva servire a parere del maestro della pop art da cartina tornasole per la società. L’uomo veniva in questo modo messo davanti al suo amore per l’usa e getta, al suo essere un oggetto effimero dentro una vita a sua volta effimera. Tutto diventa così vuoto ed inconsistente, allusivo e dissacrante, materia da contaminazione e soggetto iconico.
Descrizione dei Film di Andy Warhol
Nella prima metà degli anni ’60 Andy Warhol girò “Sleep” ed “Empire”. Entrambe le pellicole si caratterizzavano per la totale assenza di movimento e di plot e sottendevano una critica vivissima al jet set ed al concetto di audience. Per ore ed ore sullo schermo vennero proiettate le immagini di un attore dormiente.
Più o meno allo stesso periodo risale “Kiss“, una raccolta lunga poco meno di un’ora in cui vennero mostrati degli illustri sconosciuti intenti a scambiarsi un bacio. La ripetizione in questo caso si contrappose in maniera suggestiva all’emotività intrinseca nell’azione. Tuttavia in questa pellicola c’era anche del sarcasmo. Era evidente infatti un intento parodistico e, nello specifico, l’intenzione di scimmiottare il lungo bacio che Ingrid Bergman e Cary Grant si scambiarono sul set di “Notorius“.
Non meno disarmante fu il successivo “Vinyl”. La pellicola nacque per trasmettere, già a partire dal titolo, l’idea di falsità. Con il vinile si creavano infatti oggetti in finta pelle, come il chiodo. Quest’ultimo fu qualcosa di iconico per l’epoca: basti pensare a James Dean o a Marlon Brando. La pellicola fu inoltre trasposizione ante litteram del romanzo “Arancia meccanica” la cui resa è grottescamente straniata ed allucinata più forse di quanto non avverrà in seguito con il film di Stanley Kubrick.
Seguì quindi “The chelsea girls”. In questo caso il lavoro ripropose sullo schermo momenti di vita reale degli attori, momenti in cui la disperazione la faceva da padrona. Gli artisti, presentati a dittico ossia in modo che chi osservava guardasse contemporaneamente una scena muta ed un’altra sonora, posero l’accento sul potere commerciale di Hollywood. Qui per Wharol aveva sede un luogo mitico dove il consumismo imperante dell’epoca consacrava a star usa e getta stuoli di attori incapaci. I registi cercavano infatti, a dire del pittore, fantocci che non interpretassero un ruolo ma la cui psiche si avvicinasse semmai a quella di un dato personaggio.
Il cinema, concludendo, fu per l’artista qualcosa di falso, un’icona della società consumista, uno specchietto per le allodole. Tracce di questa ideologia sono evidenti anche nella pellicola, “Lonesome Cowboys”, nuova parodia del jet set hollywoodiano che vide addirittura lo stesso Andy Warhol nei panni di inespressivo attore western.